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Il dosso di San Bartolomeo di Ceole si presenta come uno sperone roccioso (135 metri slm) sulla destra idrografica del fiume Sarca. Nel 1926 vi è stato scoperto un importate sito archeologico che ha consentito di identificare tracce di frequentazione preistorica (P. Marconi, Notizie degli Scavi - Riva di Trento - Castelliere preistorico del colle di S. Bartolomeo, “Notizie degli scavi di antichità”, 1927).
Il dosso è naturalmente isolato e difeso da ripide pareti rocciose. Il ritrovamento di una cinta sommitale in muratura a secco, la vicinanza alle sponde del lago di Garda e la posizione dominante lasciano presumere la sua funzione difensiva, un punto di avvistamento e controllo sulla piana.
I reperti provenienti dal castelliere di Ceole, ora conservati a Trento nel Castello del Buonconsiglio, comprendono diverse tipologie di materiali: frammenti di oggetti in ceramica e in terracotta, punte di lancia, manufatti in osso e corno che risalgono alle fasi iniziali del Bronzo Antico.



La morfologia e l’ubicazione del dosso di San Bartolomeo, difeso non solo dalla natura ma anche artificialmente, insieme al riesame dei materiali archeologici preromani conferiscono al sito una importanza notevole. Il dosso di San Bartolomeo di Ceole ha restituito la documentazione più ricca e cronologicamente estesa relativa al popolamento dell’Alto Garda nel corso dell’età del Bronzo (F. Marzatico, Il dosso di San Bartolomeo di Ceole: riscoperta di un castelliere nell’Alto Garda. SAP - Società Archeologica, 2013)

Altri reperti dimostrano che intorno al dosso si insediarono anche i Romani che iniziarono l’attività di estrazione dell’arenaria, lavoro continuato per secoli, con cui vennero realizzati edifici e opere artistiche di pregio.
L’attività di escavazione ha però anche irrimediabilmente ferito e diviso il dosso compromettendo il sito preistorico non ancora completamente svelato e studiato. A questo hanno contribuito anche le fortificazioni austro-ungariche costruite sul dosso nel 1914.

Il Medioevo porta notizie di un “castrum ceule quod est inter arcum et ripam”, cioè di una fortificazione che si trovava a Ceole, fra Arco e Riva. Nella “Storia dei Conti d’Arco” (B. Waldstein-Wartenberg, Ed. Il Veltro, 1979) se ne parla diffusamente: “Tra Arco e Riva, nell’odierna località di Ceole, si trovava una rocca che forse fin dall’epoca preistorica doveva servire effettivamente come luogo di rifugio. Nella roccia calcarea, in parte ben conservata, erano stati scavati dei vani che furono certamente abitati e che anche oggi, mediante nuovi lavori di riattamento sono resi abitabili. Nell’epoca storica, il castello viene nominato per la prima volta nel 1202. Questa rocca fortificata fu dichiarata da Sodegerio di Tito libera da ogni vincolo feudale o di sudditanza.“

La costruzione in pietra arenaria, edificata a partire dalle antiche grotte scavate alla base del dosso, probabilmente aveva funzioni sia difensive che abitative. Questo tipo di edificio era in auge nel medioevo a partire dal X secolo. Tipicamente massiccio, di forma rettangolare e in posizione sopraelevata dotava gli occupanti della casa di un punto strategico di osservazione, segnalazione e difesa.

Una pergamena del 1482 menziona una chiesa in “territorio Ripae, super dorso Sancti Bartolomei”. Sul dosso vi era in effetti una chiesa dedicata al santo apostolo e martire nei cui pressi venivano trattenuti in quarantena coloro che provenivano da luoghi appestati o che avevano avuto contatti con persone infette.

Nel luglio del 1703 il Generale Vendôme con 20.000 soldati francesi invase il Trentino meridionale e iniziò una serie impressionante di incendi e devastazioni che interessarono Castel Penede a Nago, il Bastione e la Rocca di Riva, Castellino alle pendici dello Stivo, Castel Tenno, Castel Drena e anche il Castello di Arco.

Una rappresentazione della chiesetta di San Bartolomeo che ben rende l’idea della posizione elevata e strategica del luogo è visibile nel famoso quadro, conservato nel Castello del Buonconsiglio di Trento, della Partenza del Generale Vendôme nel 1703 che offre un’ampia veduta del territorio dell’Alto Garda. Nello stesso quadro è possibile riconoscere, alla base del dosso, il nostro edificio e la berlera.



Della nostra costruzione si rinviene traccia già in documenti notarili del 1700 ed è probabile che nel 1794 la casa sia stata oggetto di lavori di ampliamento o di riparazione come ricorda l’incisione su una pietra della facciata.

Gli avvenimenti storici che interessarono l’Europa negli ultimi decenni del XVIII secolo, condizionati principalmente dalla spinta espansionistica di Napoleone, segnarono la fine dopo otto secoli del Principato Vescovile di Trento (1027-1803). Governo austriaco e potere francese si alternarono nel reggere le sorti dell’antico principato fino all’inizio del 1801 quando si avviò la secolarizzazione del Principato Vescovile, realizzata definitivamente nel 1803. Nell’atto finale del Congresso di Vienna '(1814-1815) si ratificò l’annessione del Trentino all’Impero Asburgico d'Austria, quale parte della Contea del Tirolo.  E se è vero che l'Austria portò civiltà al nostro territorio, è altrettanto vero che ben pochi trentini considerarono l'Austria come la propria patria.

Nel 1905 la tenuta la Berlera era di proprietà del barone Giuseppe De Sluca Matteoni e della baronessa Caterina Ciani, di simpatie irredentiste, che chiamarono la famiglia di Pasquino Pederzolli (1885-1979) per condurre il grande podere.

Con la dichiarazione di guerra dell'Impero Austro-Ungarico al Regno di Serbia, in seguito all'assassinio a Sarajevo dell'Arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este, il 31 luglio 1914 l'Imperatore Francesco Giuseppe emanò un ordine di mobilitazione generale. Circa 27.000 trentini (Welschtiroler) furono arruolati nei reggimenti di Kaiserjäger e Landesschützen. Anche Pasquino dovette abbandonare la Berlera e partire come kaiserjäger per il fronte orientale in Galizia per combattere contro l’esercito russo e dove, nell’autunno del 1914, venne ferito nella battaglia di Przemyƛl. Sorte peggiore la subì il fratello che nella stessa circostanza perse la vita. Pasquino fu insignito della medaglia di argento al valor militare per atti di eroismo di fronte al nemico.

La Berlera e il dosso di San Bartolomeo fin dal 1914 divennero una fortezza. Vennero effettuati importanti lavori di fortificazione permanente, che portarono anche alla distruzione dell’antica chiesetta.
La parte superiore del dosso fu interessata dalla realizzazione di costruzioni militari con alcuni posti di guardia, postazioni per tiratori e due postazioni d’artiglieria con due cannoni da 90 mm. Il dosso fu contornato da trincee coperte e merlature allo scopo di controllare dall’alto i movimenti dei nemici e per coprirsi dai loro attacchi.
Le trincee e le merlature del periodo bellico sono ancora ben visibili lungo il perimetro del dosso e sulla roccia sommitale sono tuttora presenti le incisioni dei militari ungheresi che vi lavorarono.


                                    Österreichische Nationalbibliothek - Erster Weltkrieg, Europeana Collections 1914-1918, 20. Korps-Kommando - Inventarnummer: WK1/ALB065/18694



Nei giorni precedenti il 23 maggio 1915, data della dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, i comandi militari austriaci e il Ministero dell'Interno fecero scattare il piano di evacuazione del Trentino e del Litorale austriaco. Il Trentino divenne uno dei principali teatri di scontro della prima guerra mondiale tra Regno d'Italia e Austria-Ungheria. Decine di migliaia di civili, abitanti dei paesi a ridosso del fronte furono costretti ad abbandonare le proprie case ed evacuati in lontani territori dell'Impero Austro-Ungarico. Anche i famigliari di Pasquino dovettero, con poche ore di preavviso e con uno scarno bagaglio, lasciare la Berlera e partire per Protivin, nella Boemia meridionale.

Terminata la guerra Pasquino, nel novembre del 1918, rientrò definitivamente alla Berlera, ora nel Regno d’Italia. I genitori erano deceduti in Boemia, la vedova e i figli del fratello erano a suo carico, la casa era completamente spogliata e i terreni agricoli danneggiati. Iniziò subito i lavori di riparazione della casa e il ripristino dei campi.
Nel 1920 sposò Giuseppina Zucchelli. Ebbero sei figlie, delle quali una morta in tenera età. Le due maggiori, Erina e Elena, sposeranno in seguito i fratelli Mario e Adolfo Bonora.



Nel corso della seconda guerra mondiale, le grotte della Berlera diedero rifugio a molte persone durante le incursioni aeree. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, Riva venne annessa al Terzo Reich nell'ambito dell'Alpenvorland, una entità territoriale comprendente le provincie di Trento, Bolzano e Belluno. Il confine tra i comuni di Riva e Limone nel periodo 1943-1945 rappresentava la frontiera tra la zona sotto il diretto controllo della Germania nazista e la Repubblica Sociale Italiana, la cosiddetta Repubblica di Salò. Dalla fine del 1943 anche la Berlera fu più volte sorvolata dai “Pippo” che arrivavano di notte in volo radente, sganciando bombe o mitragliando. Colpendo principalmente nell'oscurità, i "Pippo" costringevano tutti a chiudere le imposte e a sigillare ogni fessura per evitare di essere individuati dalla luce che filtrava dalle abitazioni. Le azioni, in realtà, erano programmate dagli Alleati e affidate a piloti della RAF e avevano lo scopo di dimostrare l'impossibilità della neonata Repubblica Sociale Italiana di garantire la sicurezza del territorio.
Durante gli ultimi giorni di guerra, al momento della ritirata delle truppe tedesche, decine di persone si rifugiarono nelle grotte della Berlera per sfuggire al pericolo di rastrellamenti.
Finita la guerra ritornò finalmente la tranquillità e la famiglia Pederzolli continuò la propria vita alla Berlera fino al 1953.

Negli anni ’20 la baronessa Caterina aveva ceduto la proprietà alla figlia Antonia sposata Dalloro. Nel 1928 Antonia morì in un incidente ferroviario e Caterina riacquistò la Berlera dagli eredi della figlia e la mantenne fino alla propria morte, quando nuovamente passò ai nipoti Dalloro che la misero in vendita nel 1957, anno in cui fu acquistata dai fratelli Bonora, generi di Pasquino.

Mario Bonora (1923-2014) si prese cura dei terreni trasformandoli in un rigoglioso vigneto, si adoperò per conservare e proteggere la parte di dosso di proprietà e alla fine degli anni ’60 iniziò il restauro e il consolidamento dell’edificio portandolo allo stato attuale e vi aprì il ristorante “La Berlera”.
Inaugurato nel 1972, il ristorante ha conservato il nome con cui da tempo immemorabile viene identificata tutta la tenuta. Esso deriva dalla presenza di un imponente albero di Celtis Australis alto 20 metri e della probabile età di 700 anni che fronteggiava l’edificio a sud-ovest superandolo ampiamente in altezza. A causa della violenta e intempestiva potatura subita durante la prima guerra mondiale per mano dei militari austro-ungarici allo scopo di liberare la visuale ostacolata dalle ricche fronde, la berlera iniziò un lento e progressivo declino che portò alla sua morte negli anni ’80. Altri numerosi grandi esemplari di Celtis Australis adornano la proprietà e mantengono onorevolmente il ricordo della berlera madre. L’albero, della famiglia delle Ulmaceae, localmente è chiamato berlera per le drupe, simili a perle, che la pianta produce.

Tutto l’edificio è singolarmente incastonato nell’arenaria del dosso di San Bartolomeo. Il ristorante si sviluppa in suggestive grotte, vestigia delle antiche cave, in cui i segni lasciati dagli scalpellini testimoniano secoli di lavoro e di atavici passaggi.

Anche gli appartamenti appena rinnovati si raggiungono attraverso scale e corridoi scavati nella roccia. Ognuno di essi ha il nome arcaico di un particolare sito del podere: Stuéta, Voltèl, Cóel, Zampèl, Dossèl e Gardelìne. Dai balconi rivolti a sud e dalla grande corte esterna, lo sguardo si perde liberamente nel verde dei vigneti e degli ulivi, fino a raggiungere il blu del lago di Garda.

L’edificio e il dosso di San Bartolomeo costituiscono un unicum inimitabile, in cui uomo e natura sembrano trovare una serena convivenza e una reciproca protezione.
Il legame ultracentenario che unisce la nostra famiglia alla proprietà, il lavoro che nonni e genitori vi hanno svolto per conservarla intatta fino ai nostri giorni e la bellezza del paesaggio la rendono il nostro locus amoenus. Un sicuro rifugio dove condividere l’atmosfera unica di un luogo immerso nella storia, in un quadro naturale in cui ogni pietra, ogni albero, ogni leggera brezza estiva è un invito al benessere e all’armonia.

Adriana Bonora